Da 0 a 10: ADL e la rissa della vergogna, il doppio scandalo al Var, il nome shock per il dopo Osimhen e Lindstrom con gli occhi chiusi

Il Napoli viene eliminato dalla Champions: a Barcellona non basta il gol di Rrahmani. Deludono i big, rigore clamoroso negato a Osimhen
13.03.2024 19:52 di  Arturo Minervini  Twitter:    vedi letture
Da 0 a 10: ADL e la rissa della vergogna, il doppio scandalo al Var, il nome shock per il dopo Osimhen e Lindstrom con gli occhi chiusi
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Zero a questo clima di terrore creato attorno al Napoli, e nel Napoli, da Aurelio De Laurentiis. Imbarazzante lo show, l’ennesimo della sua stagione horribilis, messo in scena a Barcellona. Roba che va oltre il cinepanettone, un Massimo Boldi che dice ancora ‘cipollino’ dopo quarant’anni e si aspetta pure che gli altri ridono. Umilia Politano in diretta Tv, aggredisce fisicamente un cameraman, poi si dipinge sul volto di Joker e pensa di poter ripartire come se nulla fosse successo. Questo isterico Napoli è isterico come il suo presidente, come la sua gestione. Lo scudetto è stato l’enzima che ha esasperato tutti i suoi aspetti negativi, primo fra tutti l’onnipotenza. Come la maschera di The Mask, che tira fuori il lato più oscuro. Buio Aurelio.

Uno il rigore non dato per fallo su Osimhen. Quello che universalmente viene riconosciuto come tale, tranne che per chi al Var. Altro episodio sanguinoso, dopo lo scioccante episodio dello scorso anno col rigore non dato a Lozano per fallo di Leao nei quarti. La Champions è il girarono delle élite, il covo di chi, per abbuffare la bestia economica che c’è dietro, ha bisogno di darle in pasto bacini d’utenza immensi e milionari. Il Napoli paga lo status di Cenerentola, la FIFA al fischio finale aveva già pronte le congratulazioni alla Juve per l’accesso al Mondiale per club e Infantino che si complimenta con un club che ha barato e falsato le competizioni. Il Gattopardo a questi pachidermi del pallone, gli fa una pippa. 

Due gol in due settimane per Rrahmani, praticamente in fotocopia. Sembra proporsi come erede di Osimhen il difensore, che chiude alla perfezione una trama old style del Napoli. Se, nella serata delle stelle, l’unico gol lo segna Amir qualche domanda sulle stelle bisognerebbe farsela. Serviva l’impresa e l’impresa non la fai con l’ordinario, figurarsi con la mediocre prestazione di un Osimhen sovrastato, di un Kvara senza il killer instinct, di un Di Lorenzo su cui lo scudetto sul petto ha avuto lo stesso effetto dell’Anello del potere sul Frodo di Tolkien. 

Tre gol subiti, un’emorragia del gol che non s’arresta. Il Napoli si lecca le ferite, ci spruzza su qualche alibi, finge di non conoscere il problema quando il problema ha un nome e un cognome: Kim Min-Jae. Uno che copriva tante buche, un top-player, che il club ha pensato bene di sostituire col difensore comprato per fare il quinto centrale due anni fa. Nella serata in cui il Barcellona lancia il 17enne Cubarsí, il Napoli si affida (per il flop totale Natan) al quasi 33enne Juan Jesus. I miracoli, però, sono miracoli proprio perchè non riescono tutte le volte che metti mano al portafoglio ed al mercato. Reparto totalmente da rifondare. ì

Quattro cambi, tutti sbagliati, pure quello di Ngonge che è tardivo. Lo dice il campo, mica io. Nel momento migliore della squadra, che sembrava pronta a cucinare il 2-2, Calzona fa una mossa che si rivela sbagliata. Fuori Mario Rui per un disastroso Olivera, fuori Politano per un orrendo Lindstrom, che si ritrova sulla capoccia il pallone del pari. Il danese, però, fallisce l’appuntamento con la storia e la storia non sempre è così buona da ridarti una nuova occasione. Gli occhi chiusi di Jesper su quel pallone solo da spingere in rete ricordano l’adagio napoletano del coraggio e delle femmine belle: chi non c’è l’ha, non ha possibilità di farci l’amore. Sembra una sceneggiatura già scritta: il Napoli condannato dall’uomo più pagato di un mercato estivo fallimentare. “Corpo e cervello non sono del tutto sincronizzati” si dice nel film da Oscar ‘Povere creature’. La frase vale per Lindstrom e per le scelte societarie di una società che non esiste. 

Cinque alla memoria del leone indomabile, che ora è leone domato, sedato, addormentato e tutte le parole che vi vengano in mente che finiscono con -ato. Anguissa, il dominatore della mediana, la leva capace di sollevare il mondo, altro che Archimede, s’è trasformato in occasionale occupante del centrocampo. Un pendolo che oscilla tra la noia, omaggio filosofico a Schopenhauer, con pochissimi intervalli di gioia. È uno degli emblemi della regressione, inspiegabile e inattesa, di una squadra che era bella da far paura e che ha avuto poi paura quando s’è scoperta incapace di essere all’altezza di quella bellezza. Si faccia un esame di coscienza il caro Frank, chiarisca i suoi programmi per il futuro, che quest’anno s’è limitato giusto a qualche cameo in stile Htchcock nella pellicola della stagione.

Sei partite con Calzona in panchina: una sconfitta, la prima, a Barcellona, tre pareggi (andata, Cagliari e Torino) e le vittorie contro Sassuolo e Juve. Il bottino resta magro, il tempo è stato poco, il lavoro più che complicato. Nel dopo gara il mister insiste su un concetto: il tempo. Chiede tempo. Rivendica tempo, che quando ha accettato l’incarico sapeva bene sarebbe stato poco. Anche il buon Ciccio rischia di finire nel tritacarne di questa schizofrenica annata, masticato dalla delusione di un fallimento con pochi precedenti se si considera il punto di partenza. Si giochi le sue ultime dieci fiches, dimostra di poter dare al Napoli solidità oltre alla voglia di tornare a tessere trame di sarriana memoria. Chi ha tempo, non aspetti tempo: il futuro se lo dovrà guadagnare anche lui. 

Sette alla reazione al doppio schiaffo. Quando tutti temono l’imbarcata, il Napoli risale a bordo caz*o (cit. De Falco vs Schettino). Ci sono quaranta minuti buoni in cui il Barcellona viene messo alle corde, con Traore che spezza in due la mediana e allarga il gioco sulle catene esterne. Accadono cose, si generano situazioni, fioccano occasioni che per imprecisione o altro non si concretizzano nel gol del meritato pareggio. Bisognerebbe ripartire da lì, capire se quella porzione di partita nasca da una debolezza dell’animo blaugrana o dalla reale forza degli azzurri. In quel momento di bel calcio, c’è un Lobotka in versione aristotelica che sovra li altri com'aquila vola, maestro tra color che sanno in mezzo a quel campo. Sguscia tra le maglie blaugrane come Celentano sul tram in mani di velluto, gli ruba il portafoglio e pone sempre il primo mattone di ogni azione. Si dovrà ripartire da Stan.

Otto migliori d’Europa, il Napoli difficilmente poteva entrarci nella stagione in cui fatica ad entrare tra le migliori otto della Serie A. Il calcio è come la vita: nessuno può dare quello che non ha. E questa squadra, in troppe circostanze, ha dimostrato di avere delle mancanze, di aver in qualche modo assorbito il tricolore senza mai digerirlo davvero. Un trionfo che ha mitigato gli appetiti, sedato animi e destini, placato gli istinti primordiali di un gruppo famelico, pronto ad azzannare tutto e tutti al rischio di un’indigestione. La verità, l’amara verità, la vera verità, è che tutti hanno contribuito a questa mediocre, stancante, logorante, agonizzante stagione. Si salvano in pochi. Pensassero a salvare, quel poco che resta.

Nove evanescente, mai dominante. Osimhen si fa mettere in un angolo, senza mai accennare nessun ballo proibito. Sempre in fuorigioco, costantemente al guinzaglio dei due centrali del Barça, Victor fallisce in quella che doveva essere la sua vetrina in vista dell’estate. Ha vissuto da ex l’intera stagione, ha passato la notte di Barcellona a fare movimenti errati e non riuscire mai ad arrivare prima degli avversari su un cross arrivato in area. Dice a tutti di aver già deciso il futuro, convinto com’è che arrivi un club pronto a sborsare 130 milioni per la clausola. Ieri non si è fatto una bella pubblicità. 

Dieci partite al termine di una stagione surreale. Un lungo, profondo, orripilante, incubo. Pensavamo di essere all’inizio di un ciclo, ciclo che si è rivelato essere un coito interrotto quando pensavi di essere appena prima scena di 9 settimane e mezzo. Il Napoli dello scorso anno era Cicerone, che saresti stato ore ad ascoltarlo, poi s’è trasformato in Luca Giurato e il discorso s’è fatto contorno, ingarbugliato, incomprensibile. C’è una strana sensazione dopo questo ko, il rumore di una campanella che suona ed una parentesi di pallone che si chiude. Risuona nella testa una canzone dei Baustelle: “Il futuro desertifica… La vita ipotetica, Qui la vista era magnifica, da oggi significa, che ciò che siamo stati non saremo più”. C’è quella paura lì, di non risentire quella musichetta Champions per un po’…

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