Ciao mister, e grazie. Anche dei ‘fuochi’

24.05.2018 22:44 di Mirko Calemme Twitter:    vedi letture
Ciao mister, e grazie. Anche dei ‘fuochi’

(di Mirko Calemme) - Iniziò tutto con un tweet, così come è finito. Fu un messaggio scarno, inatteso, per qualcuno deludente, quello che annunciò l’arrivo a Napoli di Maurizio Sarri. Chi lo conosceva, parlava di un ‘maestro di campagna’ che avrebbe avuto bisogno di tempo. Lui stesso, senza sovrastrutture (come sempre), ammise che per arrivare al livello del suo Empoli servivano tre anni. Apriti cielo.

La storia del mister di Figline con l’azzurro sembra quella di un amore estivo. Intensa, folle, irrazionale. Con un finale brusco, traumatico: il congedo avvenuto ieri, a distanza, mentre De Laurentiis metteva a segno il leggendario colpo Ancelotti. Le riunioni dei giorni scorsi come ‘miglioria di morte’, quel soffio di vita che precede l’addio. Era scritto, doveva finire così, e soprassediamo sui modi e la distribuzione delle colpe.

Quando arrivò, Sarri ci mise due, al massimo tre giorni per conquistare i suoi titolarissimi. Dal famoso cambio di postura di Albiol all’addio annunciato di Callejon, che invece si innamorò calcisticamente di lui e non ne volle sapere di abbandonarlo. Finchè a Dimaro apparve Higuain, un depresso Pipita. Gli fece tornare il sorriso e gli costruì la miglior stagione della sua vita. Poi se ne andò. Ma soprassediamo anche su quello.

In tuta, con "la barba sfatta", la sigaretta in bocca e qualche parolaccia, ha conquistato anche il Dio del calcio in Terra, che lo accolse dicendo "mio zio non può allenare il Napoli" e lo saluta ringraziandolo "per la lezione d'umiltà". In tre anni ha sempre battuto il record di punti azzurro in A, portandolo ad un picco da alieni: 91. Una cifra difficilissima da battere, un numero che perseguiterà ogni suo successore. Ha scelto, contro vento e marea, di fare la rivoluzione insieme a una quindicina di fedelissimi. Nel 2015 disse che 18 uomini bastavano per fare un colpo di stato. C’è andato vicinissimo, sfidando una portaerei col suo vascello.

Lo ha fatto fedele ai suoi principi, attraverso la bellezza. L’unico modo che conosceva, l’unico che potesse funzionare. Ha donato ai tifosi del Napoli la settimana più bella degli ultimi 28 anni: la testata di Koulibaly a Torino è valsa, per chi quei giorni là non li ha vissuti, l’ebbrezza reale di essere vicini a uno scudetto. Una gioia irrefrenabile che ai vincitori, poi, è parsa offensiva. I famosi “fuochi” furono rinfacciati più volte ai napoletani nel giorno della loro sconfitta. Eppure a Napoli si cantava “abbiamo un sogno nel cuore”, non “i campioni siamo noi”. Perché dà fastidio un popolo di sognatori? Incomprensibile, ma poco importa. Anzi, meglio così: almeno sette giorni di irrazionale euforia se li è concessi anche la città che perde sempre. C’è un detto meraviglioso in Spagna: ‘que te quiten lo bailao’. Significa, in soldoni , che nessuno può toglierti un momento di gioia. Che una volta vissuto, è tuo per sempre.

Ed è per questo che il commiato del San Paolo è stato così intenso e commovente. Napoli non aveva nulla da festeggiare, eppure erano tutti lì ad applaudire, a chiedere di riprovarci. La maglia azzurra lo farà, ma con altri interpreti: ha provato a sfondare la porta del Palazzo con un folle rivoluzionario, ora ritenta con un uomo di potere, un generale che ha già dominato in Europa più volte. Meno romantico, forse. Elettrizzante, senza dubbio.

Se il Napoli può permettersi Ancelotti, però, è (anche) grazie allo splendido lavoro degli ultimi tre anni. E se questi tre anni sono andati così bene, è (anche) grazie al biennio precedente, che ha rivoluzionato il club con una serie di arrivi prima impensabili. Bisogna essere grati, comunque vada, a chi ha portato questa squadra così in alto, passo dopo passo, con qualche inevitabile errore e tante, tante soddisfazioni. Quindi grazie, mister Sarri. Come l’Olanda del ’74 da lei tanto amata, ha lasciato un segno anche senza entrare negli almanacchi. Napoli non la dimenticherà perché, per questa città, vincere non è l’unica cosa che conta. Altrimenti il calcio avrebbe smesso di amarlo da un bel pezzo.