Da Zero a Dieci: 21' nell’immondizia, la frase che rivela il futuro di Sarri, la maledizione della 'D' e la sostituzione che cela un problema

16.04.2018 09:47 di  Arturo Minervini  Twitter:    vedi letture
Da Zero a Dieci: 21' nell’immondizia, la frase che rivela il futuro di Sarri, la maledizione della 'D' e la sostituzione che cela un problema
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© foto di Daniele Mascolo/PhotoViews

(di Arturo Minervini) - Zero vittorie nelle ultime tre trasferte, dopo aver vinto dodici delle prime tredici gare lontano dal San Paolo. Dato che ci racconta qualcosa che riguarda prima di tutto la testa, l’approccio, la spavalderia. Come Fonzie che entra in un bar ma con il pugno non parte la musica dal Juke Box, così il Napoli ha fatto un passo indietro su quell’incoscienza che l’aveva portato ad imporsi su ogni campo. La prestazione complessivamente resta buona, ma le partite vanno contestualizzate alla necessità, all’obbligo di portare a casa una vittoria che avrebbe dato tutt’altra energia nella settimana decisiva. Questa volta, per davvero.

Uno a chi si era lasciato accarezzare dal cattivo pensiero. Che aveva dubitato sullo spessore umano di Reina, in bilico tra presente azzurro e futuro rossonero. Pepe, invece, gioca una grande partita, concedendosi anche una ‘ruleta' su Kalinic dopo appoggio di Maggio che Zidane spostati proprio. Giusto sottolinearlo, in un calcio che scarseggia di gente che merita di essere ricordata. Reina, con tutti i difetti del mondo, non sarà mai un traditore, il motivo lo spiega Erri De Luca: “Non esiste il tradito, il traditore, il giusto e l’empio, esiste l’amore finché dura e la città finché non crolla”.

Due cambi al 66’, 21’ della ripresa buttati nel bidone dell’immondizia come fosse il cuore di Oliver. Cambi prestampati come i soldi di Totò e la sua Banda degli Onesti, cambi che tolgono dalla gara un Hamsik che (dopo un brutto primo tempo) stava cambiando marcia al Napoli ad inizio ripresa e che viene inspiegabilmente richiamato in panchina. Correggere le proprie idee è l’ultimo atto da compiere, il gradino che Maurizio Sarri ancora fatica a superare, ancorato ad una cocciutaggine che per tanti anni è stata la sua forza, ma che a certi livelli potrebbe rappresentare un piccolo limite. Ed è un vero peccato.

Tre punte con Mertens fuori. Niente 4-2-3-1 che aveva dato la svolta contro Sassuolo e Chievo, con Milik ancor più a suo agio con Dries alle spalle. Con un vantaggio abissale sulle terze, c’era l’obbligo morale almeno di dare l’assalto al Milan. Un rimpianto è un qualcosa che ti mangia nel sonno, ti bussa ogni volta che provi a chiudere gli occhi. Fallire non è una vergogna. La colpa resta sempre non provarci nemmeno. Finisci di fare la fine di Ceccherini nel Ciclone, che si tappa nella bara già prima di prendere il due di picche da uno delle avvenenti spagnole sbarcate in cascina.

Quattro reti nelle ultime cinque di campionato. C’è la carestia di una bocca che assaggia un pan di spagna preparato male nel tridente azzurro, in preoccupante involuzione numerica rispetto alle reti realizzate lo scorso anno. A segnare queste reti: Albiol, l’autorete di Rogerio, la zuccata di Milik ed il piattone di Diawara. Nel momento chiave del campionato, il Napoli si è ritrovato come Troisi in Ricomincio da Tre quando sognava di essere in guerra: con fucili che non avevano più colpi da sparare. 

Cinque dita che si aprono, come uno schiaffo in pieno viso. La manina di Donnarumma è oggetto volante non identificato che oscura il cielo che stava diventando come d’incanto azzurro su Milano. Quell’urlo che stava già nascendo, una G gigante di ‘Gol!” tenuta a freno per 93’ che deve fare il percorso inverso, quando era già pronta ad annunciare la presa di San Siro. C’è una strana simbologia in questi episodi chiave, tutti legati al minuto 93’. In particolare una lettera: Dybala contro la Lazio, Diawara contro il Chievo, Donnarumma contro il Napoli. Una ‘D’ di Destino, una trama scritta da qualcuno di più alto. Una Dannata beffa. 

Sei punti di distacco, con sei gare da giocare. Due numeri così in contrasto con quel sogno cullato dalle prime notti di agosto, una clessidra che ha ancora poca sabbia da versare. Una distanza scavata dagli episodi, dai singoli della Juve, dalla possibilità da parte di Allegri di attingere a risorse evidentemente superiori sul piano numerico. C’è però anche una questione di fiducia nelle risorse a disposizione: Rog inserito al minuto 87’ ci racconta che, forse, su quel piano Sarri ha finito con affezionarsi ad un’idea diventandone in qualche modo schiavo. Ed ha in qualche modo incatenato i panchinari ad una sensazione di non essere adeguati, senza mai avere la controprova. 

Sette al furto di Albiol al minuto 26’ a Kalinic. Più lesto di Celentano in ‘Mani di velluto’, Raul fa sparire il pallone che il Nikola rossonero era pronto a battere a rete. Dominatore assoluto dell’area di rigore, pedigree da campione che in certe gare fa sempre la differenza. Ci vorrebbero tanti nuovi Albiol, tanta gente che sa cosa significa vincere, che non ha bisogno di alzare la voce per farsi rispettare. Il concetto di Campione è qualcosa di totalitario, che investe la mente, il corpo la psiche. Per vincere serve chi ha questo tipo di DNA.

Otto milioni, che Maurizio non pagherà e che probabilmente nemmeno altri faranno. L’apertura al rinnovo di Sarri dopo Milano è totale, sincera e sentita. Frasi che sono una risposta alle sollecitazioni di De Laurentiis, ora bisognerà solo trasformare in cifre questi ammiccamenti. Perché, se è vero che non è perfetto (ma i perfetti poi non sono nemmeno così simpatici), dobbiamo ribadire che in questo momento Sarri, come il mondo nel Candido di Voltaire, resta il migliore degli allenatori possibili per questo Napoli. L’educatore che indica la via, l’esploratore che va a caccia di nuovi venti per fregare le flotte dei potenti. Un lavoratore con le mani sporche e la mente sempre rivolta alle stelle e, come noto, “il lavoro allontana da noi tre grandi mali: la noia, il vizio e il bisogno.”

Nove punti sui diciotto disponibili nelle ultime sei gare. Giusto la metà, come un cuore spaccato in due. Nel mito di Platone gli Androgini erano essere perfetti, separati dagli dei invidiosi e condannati ad una ricerca perenne della loro metà. Così il Napoli ha accarezzato l’Olimpo, si è a volte perso nella sua bellezza, nella sensazione di perfezione che ti fa perdere praticità. Non ha letto alcuni segnali d’allarme, non ha cercato soluzioni alternative ed alla fine si è ritrovato tremendamente umano. Incapace di andare oltre gli episodi, rinchiuso in un sistema che è forza e debolezza, energia ed affaticamento al tempo stesso. Proprio come i protagonisti del Mito di Platone, il Napoli è andato a caccia di una parte di sé, della sua autosufficienza che nascondeva ogni altro tipo di necessità. Immagine allo specchio non smarrita, ma sicuramente sbiadita rispetto a quella riflessa fino a due mesi fa. Investigarne le cause è esercizio complesso, tirare in ballo la stanchezza non sarebbe esaustivo. Investire per evitare che accada in futuro l’unica via per provare ad andare oltre i propri limiti.

Dieci a chi lascia da parte il piccone e si proietta sul “Costruire”. Un verbo sconosciuto a chi si lascia sempre vincere dalla frenesia, dall’isteria di chi deve necessariamente fare un elenco delle cose sbagliate negli ultimi quindici anni, giusto per sentirsi meno forte. Per il gusto di indebolire una squadra che andrebbe in qualche modo accarezzata, dopo una piccola ferita. Invece no. Ci si contende il brandello di carne come sciacalli sulla preda sanguinante, si reclama un pezzettino di ragione per un momento di celebrità. La sconfitta peggiore per questa piazza è l’incapacità di mostrare coesione quando non si vince.