Da Zero a Dieci: gli insulti furiosi a Lorenzo e Marek, la distrazione fatale di Kou, le lacrime da brividi del Pipita e la frase di Sarri che spazza via la paura

14.02.2016 10:51 di  Arturo Minervini  Twitter:    vedi letture
Da Zero a Dieci: gli insulti furiosi a Lorenzo e Marek, la distrazione fatale di Kou, le lacrime da brividi del Pipita e la frase di Sarri che spazza via la paura
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(di Arturo Minervini) - Zero le reti realizzate allo Stadium. L’ultima volta era accaduto contro la Roma, prima di iniziare la serie delle otto vittorie consecutive. Provate a prendere un pianista, metterlo davanti ai suoi amati ottantotto tasti e bendatelo. Il risultato, se il pianista è di livello, non cambierebbe. Il Napoli di Torino è stato un pianista che, bendato, ha perso l’ispirazione artistica dei suoi solisti. Note isolate, che hanno faticato a mettersi in ordine melodico su un pentagramma. E’ mancata un pizzico di quell’anima, che mani sapienti sanno far nascere da tasti in bianco e nero. La lezione da portare a casa è la seguente:  “I tasti iniziano. I tasti finiscono. Tu sai che sono 88, su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti, loro. Tu, sei infinito, e dentro quei tasti, infinita è la musica che puoi fare. Loro sono 88. Tu sei infinito”. Bisognerà lavorare molto sulla volontà all’essere infinito. 

Uno come il gol subito. C’è un destino troppo crudele che ha in mano la penna per scrivere il copione di una serata difficile da dimenticare. Koulibaly, perfetto fino a quel momento, si lascia tentare dai vizi della sua giovinezza, stacca la spina per qualche secondo ed ecco la palla da bowling della sventura che prende una strada in discesa, Tutto ciò che accade dopo è pianta che si genera dal seme del caos. La deviazione di Albiol è il tocco del male che aiuta quello storicamente più forte. O semplicemente quello che ci ha creduto di più. Senza scomodare Mandela, alla Juventus andrebbe rubata proprio quella voglia di un sognatore che non si arrende mai.

Due occasioni concesse alla Juventus. E’ l’altra faccia della medaglia, quella di un Napoli capace in uno stadio dove TUTTI soffrono, di non soffrire. Una rivoluzione più sorprendente di chi mise in discussione l'invalicabilità delle Colonne d’Ercole e che il mondo finisse a Gibilterra. In quello stadio, basta un semplice click su Youtube, il Napoli era sempre entrato a testa bassa ed uscito con il capo ancor più chino. Il risultato cambia la statistica, ma non potrà cambiare questo rinnovato approccio in fase difensiva. Un nuovo mondo è stato esplorato, il piede ha toccato terreno diverso, impronte che per questa squadra hanno il gusto dell’ignoto. Si chiama esperienza. Si chiama voglia di veleggiare verso lo sconosciuto per imparare a domarlo. “Per correr miglior acque alza le vele omai la navicella del mio ingegno, che lascia dietro a sé mar sì crudele, e canterò di quel secondo regno dove l'umano spirito si purga e di salire al ciel diventa degno”. Per il Paradiso, si passa sempre dal Purgatorio.

Tre le sconfitte in campionato, tutte maturate lontano dal San Paolo. Superando la diversità dei ko, il numero resta e merita di essere analizzato. Tra le mura amiche gli azzurri hanno raccolto 32 punti in 12 gare, “on the road” 24 in 13. Non serve una laurea in matematica a Princeton per cogliere le differenze. Diversità che involgono, evidentemente, più l’aspetto mentale che quello tecnico. “È la nostra luce, non la nostra ombra, quella che ci spaventa di più.” 

Quattro quattro due, anzi si. No. Forse. La pretattica della Juve è attestato di stima importante, con Khedira che fino alla vigilia sembrava pronto per unirsi alla disquisizione filosofica tra il Conte Rovigo e di Belluno e Gennaro Esposito, netturbino, nella Livella di Totò, parte titolare giocando tutti i 93’ della gara. E menomale che le sceneggiate sono materia dei napoletani…

Cinque minuti. Cinque minuti maledetti. Il primo posto del Napoli è in quei terrificanti cinque minuti. E’ Mertens che perde palla banalmente, Callejon ed Hysaj che saltano con meno fame di Alex Sandro su un pallone. Cinque minuti in una gara di calcio sono una pallina che accarezza il nastro e poi sceglie da che lato cadere. Fortuna, ambizione, talento. Sensazioni che si mescolano in un grande frullatore. Il concentrato che ne esce è di un sapore amaro. Amarissimo. Come il Limoncello corretto alla Morfina servito da Cico ai fratelli nella Commedia “E fuori nevica”. Mamma d' 'o Càrmene…

Sei al direttore di gara. Oltre qualche sbavatura, soprattutto nel primo tempo, Orsato fa al calcio il regalo più bello: permette agli appassionati di giudicare quello visto in campo. Senza polemiche, senza episodi che abbiano potuto influenzare il risultato finale. Contro chi ha una maglia a strisce e stelle abusive sul petto è già una grandissima conquista. Grazie.

Sette gare sono passate, dal Torino alla gara di Torino, per attendere una gara senza esultanza per Higuain. Serata in apnea per il Pipita, asfissiato nella morsa creata da Allegri per lui. Gonzalo si è sacrificato, è rimasto lì davanti per non concedere metri alla Juve, ha fatto quello che serviva. I palloni giocabili sono più rari delle parole snocciolate in cinque sere al Festival dallo “juventino” Gabriel Garko (immaginate l’impresa di spiegargli la regola del fuorigioco?). Gli spazi minori di quelli del bagno di Renato Pozzetto in “Ragazzo di Campagna". Le lacrime che bussano ai suoi occhi a fine gara svelano il lato più affascinante di un ragazzo che ci crede, ci crede davvero. Un eroe è colui che semplicemente fa ciò che può. Gli altri non lo fanno. Higuain ha fatto quel che poteva. Le gocce che abbandonano a fatica i suoi occhi siano acqua per lavare l’ego di troppi insensati commentatori.

Otto a Insigne e Hamsik. I più criticati dopo Torino. Quelli che a Torino ci hanno portati da capolista. ‘O fenomeno Dybala non ha toccato palla, ma non sentirete critiche feroci per lui. Rifletteteci. A Lorenzo e Marek, ed ai loro accaniti e prevenuti critici, dedichiamo la meravigliosa opera di Salvador Dalì “La persistenza della memoria”: Orologi molli, che si fondono, una meditazione profonda su spazio e tempo, un invito a ricordare. A non dimenticare. La creazione non è un qualcosa di immutabile, di perenne. Un giorno la tela può restare bianca, senza essere necessariamente delle pippe/falliti/esaltati/sopravvalutati. D’altronde l’arte è fatta per disturbare, la scienza per rassicurare. Tenetevele strette le vostre aride certezze. 

Nove punti di vantaggio, in attesa delle altre gare, sulla terza, quella Roma, la corazzata che in estate aveva già vinto il campionato, mentre il Napoli lottava con l’Empoli per una tranquilla salvezza. Mentre rimuginate su quello che poteva essere e non è stato, lasciatevi consolare da quello che è e che resta. Guardarsi indietro ogni tanto è utile, per capire cosa si è diventati, per capire cosa fare per andare ancora più avanti. Di strada ne è stata fatta tanta dall’epidemia “ridimensionamento” che aveva colto gran parte della critica e della tifoseria a giugno. Buttare benzina adesso sul percorso fatto, bruciando le briciole disseminate del terreno, vorrebbe dire scappare da se stessi. E da te stesso non ci scappi nemmeno se sei Eddy Merckx.

Dieci alla capacità di Maurizio Sarri di spazzare via, con una sola frase, il dubbio dal cuore dei suoi uomini. “Siamo passati da un -24 a giocarcela alla pari, o meglio, contro la Juventus. Una deviazione non può cambiare le nostre convinzioni”. Sarebbe quasi da farsela tatuare, da schiacciarla forte sulla pelle per trovare conforto ogni qualvolta non ti senti all’altezza di un’impresa. Ha ragione Sarri, lo dice perché ha visto il suo Napoli controllare l’inerzia della gara per lunghi tratti. Di fronte una Juve forte, fortissima, che ti stritola come un’anaconda e rischia di fare arrivare poco ossigeno al cervello. Qualche volta accade, ma sono episodi sporadici. Il pareggio era già scalfito nella pietra. Maurizio sempre più Leonida: “Non ci ritiriamo. Non ci arrendiamo. Questa è la legge di Sparta. Noi obbediamo alla legge di Sparta e quindi restiamo, ci battiamo e moriamo”. Nessuna deviazione potrà deviare l’animo dell’armata di Maurizio da Bagnoli.