Guido Clemente di San Luca a TN - Cosa insegna la vicenda Ancelotti

Guido Clemente di San Luca, Ordinario di Diritto Amministrativo all'Università della Campania Luigi Vanvitelli, ha espresso per Tuttonapoli alcune considerazioni su Carlo Ancelotti

03.06.2022 12:10 di  Redazione Tutto Napoli.net  Twitter:    vedi letture
Guido Clemente di San Luca a TN - Cosa insegna la vicenda Ancelotti

Guido Clemente di San Luca, Ordinario di Diritto Amministrativo all'Università della Campania Luigi Vanvitelli, ha espresso per Tuttonapoli alcune considerazioni su Carlo Ancelotti

"Lo straordinario risultato conseguito da Ancelotti con il Real Madrid ha generato molte discussioni, soprattutto fra quanti a Napoli hanno disputato a lungo sulle responsabilità, sue o di altri, nella obiettivamente fallimentare esperienza sulla panchina azzurra.

Il successo di Ancelotti è stato da molti celebrato anche attaccando chi si sarebbe espresso in senso negativo. Fino al punto di evocare un «ben noto sciamano invasato» (del quale sarei curioso di conoscere il nome), alla cui «solita spiegazione apodittica, supponente e che non ammette repliche» noi napoletani saremmo condannati. Rammento che ‘sciamano’ è colui «che gode di particolare potere carismatico e influenza all’interno di una comunità grazie alla capacità di circondare i suoi gesti e le sue parole di un’aura di mistero e di ispirazione soprannaturale» (dal vocabolario Treccani). Francamente non ne vedo. Ma se sapessi chi è, mi affretterei a complimentarmi con lui, sempre sia vero che pensa che «il Real non ha un gioco».

Del resto, le parole dello stesso Carletto nell’intervista post-partita (la consueta saga delle banalità) sono parse pronunciate con evidente imbarazzo, tant’è che – con la notevole intelligenza ed onestà di cui dispone – ha anticipato quello che gli si sarebbe potuto facilmente obiettare. A dire il vero, erano tutti in evidente imbarazzo. Praticamente quasi ogni commento è stato condizionato in via esclusiva dal risultato. È l’unico allenatore ad aver vinto 4 volte la Champions, ed ha vinto il titolo nei 5 principali campionati (Italia, Inghilterra, Spagna, Germania e Francia). That’s it.

L’unico argomento tattico adoperato da Ancelotti – quello di «non aver lasciato spazio dietro la difesa per evitare il loro pressing alto» – appare alla luce dei fatti privo di fondamento. Giacché, restando a questi, non è vero che in quel modo sia stato impedito al Liverpool di essere pericoloso. Ha avuto – oltre al dominio pressoché assoluto del gioco – almeno 5 palle-gol clamorose. Sventate da un grandissimo portiere, per di più in serata di grazia.

Del resto, chiunque abbia visto (e studiato) – prima della finale – i doppi confronti con PSG, Chelsea e Manchester City, non ha potuto esprimere un giudizio critico diverso da questo: il Real ha vinto sì, ma avrebbe meritato di vincere l’altra squadra. Tutte le avversarie infatti hanno giocato molto meglio. Eppure hanno perso. Perché? Secondo critica intellettualmente onesta, dovrebbe riconoscersi un’amara realtà: che tutto quanto si genera non sempre determina il risultato corrispondente alle pur fondate aspettative. Ma ragioniamo.

Quali sono i meriti e/o le qualità di Ancelotti? Giustamente è stata sottolineata «la saggezza del leader calmo». Così come è stato opportunamente ricordato che ha saputo «armonicamente» fondere «giocatori esperti e di gran classe con un nugolo di giovanissimi». E che «le squadre di club italiane e la stessa nazionale hanno vinto quello che hanno vinto giocando all’italiana. E quindi peggio delle avversarie».

Ora, che giocare «alla italiana» significhi giocare «peggio» è del tutto opinabile. Peggio in che senso? Dipende dai gusti. Io ad esempio – che pure sono stato entusiasmato dal Napoli di Sarri – ricordo squadre altrettanto meravigliose impostate tatticamente su difesa e contropiede (senza andare lontanissimi nel tempo e nello spazio, il Napoli di Mazzarri, con Lavezzi e Cavani devastanti in ripartenza, era una goduria). Il punto, però, è che il Real non gioca così. Avrà costruito, nella finale, al massimo 2-3 contropiedi, e soprattutto sul finire. Come gioca il Real non si riesce a dire.

Viceversa, sono da sottoscrivere in pieno gli altri due meriti/qualità riconosciuti ad Ancelotti. Anzi, secondo me, ne ha persino di più. Dispone di una indiscutibilmente notevole qualità umana, soprattutto perché è una persona per bene. Dispensa gradevolissima bonomìa ed umiltà. È dotato di enorme esperienza, e di una eccellente sapienza nel mettere insieme grandi giocatori (quelli fra i migliori in circolazione), e nel farli convivere con giovani emergenti. Tutti meriti/qualità non comuni. Ai quali poi aggiunge una dote preziosa, la più difficile da rinvenire. La fortuna. Di cui dispone veramente in abbondanza. E – sia chiaro – nulla v’è di male.

Tuttavia, è ciò sufficiente per affermare che sia un grande allenatore, o addirittura il migliore? Se così fosse – occorre domandarsi – non avrebbe dovuto vincere anche a Napoli o all’Everton, dove invece, non godendo di una rosa straordinaria, ha fallito? La verità è che Ancelotti mai ha conferito alla squadra guidata una identificabile idea di gioco (chiunque sia in grado, è caldamente invitato ad indicarla). E questo costituisce un limite tecnico non insignificante, che si appalesa nitidamente soprattutto quando non si dispone dei calciatori più forti.

È stata giustamente richiamata la nota massima: «ciascuno è artefice della propria sorte». Mi domando se si sia mai adeguatamente riflettuto sulla sua fondatezza. Ma veramente il lavoro e l’impegno pagano sempre? Veramente il talento viene sempre riconosciuto? Si può affermare che l’elemento decisivo per capire chi merita sia il risultato che si ottiene? Qualunque sia la scena della vita in cui recita, forse, un attore andrebbe giudicato non soltanto dall’immediato conseguimento dell’obiettivo. I parametri in base ai quali va valutata un’esperienza sono anche tanti altri.

Insomma sovente, nel pallone come nella vita, non vince o si afferma il migliore. La retorica secondo cui se ci si impegna seriamente alla fine si ottiene il risultato contiene un’enorme dose di ipocrisia. Visto che a vincere è uno soltanto, ciò dovrebbe significare che gli altri contendenti non si siano impegnati. Suvvia. È da tempo che vado sostenendo invano che nel calcio la vittoria dipende dal ricorrere di tre diversi fattori: a) le capacità che si dispiegano (tecnica dei giocatori, disegno ed organizzazione tattici, tenacia e temperamento, preparazione atletica, creatività nella costruzione del progetto, bellezza del prodotto); b) la garanzia di regolarità della competizione; c) il kairos. E non è affatto inconsueto che quest’ultimo finisca per contare ben più degli altri due. C’est la vie.

In definitiva, la vicenda di Ancelotti c’interroga su tante questioni che vanno ben al di là della storia del calcio, la quale – per esprimersi «sul piano della logica elementare» – senz’altro insegna che, di essa, «certi deliri» costituiscono le fondamenta. Che i suoi «amanti» ne «leggono», eccome. E, più che ridere dei deliri, dispensano amari sorrisi. Di quelli che normalmente vengono riservati – con orribile crudeltà – ai pieni di sé che si compiacciono assai nel prendersi sul serio.