Guido Clemente di San Luca a TN: "Le condizioni per riprendere ed il rischio di uno scontro ideologico"

Guido Clemente di San Luca, Ordinario di Diritto Amministrativo, Università della Campania Luigi Vanvitelli, ha scritto per Tuttonapoli un editoriale analizzando la possibile ripresa del campionato.
1. Qualcuno mi ha chiesto che senso avesse il titolo del mio ultimo editoriale – “Ripresa del calcio? Riflessione sul rapporto fra scienza e decisione politica” – visto che in esso non avevo proprio parlato di pallone. Il senso era esplicitato in epigrafe. Non si può parlare di calcio se prima non si chiarisce come, e in che misura, l’emergenza sanitaria impatta sulla decisione pubblica. Riprendere o no il campionato di calcio è scelta politica. E questa non può non basarsi su presupposti scientifici. Il fatto è che, dopo ormai due mesi, le condizioni preliminari sono ancora poco chiare.
2. Anzitutto non sono disponibili in maniera certa molti dati numerici. Per decidere correttamente c’è bisogno di conoscerli. A parte scoprire l’origine del covid 19 (su cui s’è appena riaperto il dubbio che sembrava invece essersi risolto), occorrerebbe sapere quanti sono effettivamente: a) i contagiati, b) gli asintomatici, c) i guariti [e fra questi quanti a casa senza grandi problemi, quanti curati in ospedale, quanti dopo terapia intensiva], d) i deceduti [e fra questi quanti solo per il virus, e quanti anche per altre morbilità]. Non si sono rinvenute le ragioni della differenziazione territoriale della ‘cattiveria’ del virus. Né è dato capire se, e per quanto tempo, una volta guariti, se ne resta immuni. È anche in ragione di ciò che risulta complicato vagliare le diverse opzioni scientifiche, non di rado fra loro contraddittorie.
La sola vera verità è che i non addetti ai lavori assistono, impotenti, ad una guerra che pare ideologica e di potere. Da una parte, il cd. mainstream scientifico non riconosce apertamente la propria sostanziale inconsapevolezza, molti suoi esponenti presentandosi gonfi della presunzione derivante dal loro ruolo o collocazione, quasi mai mettendo in dubbio le convinzioni che hanno, frutto soprattutto di supposizioni indimostrate, per quanto suggestive e non del tutto prive di fondamento. Dall’altra – al contrario, ma alla stessa stregua – il pensiero alternativo nel suo insieme, esprimendo assunti assertivi per deduzione, liquida come ‘normale’ una letalità del morbo obiettivamente non comune, spiegandone le ragioni in base a convinzioni generali e senza inferire la verità dalle evidenze fenomeniche. V’è un serissimo rischio di scontro fra ideologie. Non che sia deprecabile seguire un credo. Tuttavia, bisognerebbe virtuosamente evitare un grave vizio metodologico: quello di negare la piena intelligenza dei fatti, allo scopo di piegarli a una interpretazione preconcetta, e cioè di spacciare per tesi ipotesi (più o meno accattivanti, ma) non dimostrate. Insomma, non si possono proporre affermazioni in maniera apodittica, senza prove. Un po’ come quei giudici che pronunciano sentenze di condanna non al di là di ogni ragionevole dubbio.
Nessun esperto è in grado di rispondere all’unica vera domanda che andrebbe posta. E che perciò non si pone esplicitamente. Cosa manca al sistema immunitario dei soggetti affetti dal morbo che rende questo virus – diversamente dagli altri – capace di determinare la morte, in una percentuale che pare superiore alla media. E cosa ha invece il sistema immunitario dei contagiati (in numero verosimilmente superiore a quello accertato) che rende il virus innocuo, o comunque vincibile in maniera per lo più non traumatica (tranne un non elevatissimo numero di casi). Sarebbe evidente infatti che, se si riuscisse a rispondere, il virus andrebbe combattuto fondamentalmente rafforzando il sistema immunitario. Ciò che il mainstream sembra invece negare.
La manifesta inconsapevolezza della scienza – i suoi vari esponenti distinguendosi in prevalenza per l’impegno profuso nello screditare le opinioni altrui senza contraddittorio – rende difficilissima la scelta politica. Per compiere le valutazioni preliminari al fine di assumerla, perciò, si è costretti a procedere per congetture, per stime più o meno approssimative, per calcoli presuntivi più o meno attendibili. Se i fatti restano non spiegati, inconfutabilmente, dalla comunità scientifica (anche per la non più tollerabile mancanza di dati epidemiologici sicuri: poche le autopsie, insufficienti i test seriologici), la decisione pubblica va comunque assunta seguendo logica e ragionevolezza.
Sì, si tratta di un’influenza, ma è più contagiosa e più letale delle altre. È di scarsa onestà intellettuale affermare che si tratti di un’invenzione per sottomettere la gente. Appare, però, esagerata anche la paura diffusamente ingerenata, attraverso i media, dalla scienza mainstream. Lo si può affermare senza meritarsi per forza l’accusa di ‘complottismo’. Fin qui nella decisione pubblica s’è fatto giustamente prevalere, su tutto, il principio di precauzione. Oggi deve essere sempre più mitigato, facendo aumentare il peso di quello di proporzionalità.
Dinanzi alle differenti supposizioni scientifiche – alcune anche non prive di senso, ma come altre che le contraddicono –, è logicamente consequenziale che cambi il paradigma di legittimità della decisione dei pubblici poteri. Diventa, cioè, non più legittimo rinunciare a coniugare la precauzione con la proporzionalità. Nel nuovo quadro di riferimento, l’emergenza sanitaria non può più giustificare regole e provvedimenti che non bilancino il loro contenuto con altri interessi, a cominciare dai diritti di libertà (personale, di circolazione, di religione, ecc.), parimenti considerando le esigenze economico-sociali del Paese.
3. E veniamo al calcio. Se, in generale, occorre proporzionatamente bilanciare l’interesse alla salute pubblica con quello economico-sociale, allora bisogna chiedersi, in particolare, quali rischi si potrebbero correre con la riapertura del campionato, e quali benefici porterebbe.
Se si gioca a porte chiuse, e con le garanzie, di cui si parla, di controllo e monitoraggio dei ‘gruppi’ costruiti intorno alle squadre, il rischio sociale si presenta certamente inferiore a quello che può generare il lavoro in fabbrica, per raggiungere il quale, ad esempio, bisogna utilizzare mezzi di trasporto pubblico. Certo, ci può essere qualche rischio per la salute dei calciatori e dei componenti degli staff. Ma, con le misure immaginate, è un rischio di gran lunga inferiore a quello che corrono i dipendenti delle aziende industriali e commerciali.
Viceversa, va considerato il cospicuo beneficio sociale che avrebbe la riapertura. Non solo perché il settore è fra i più rilevanti nella formazione del PIL nazionale. Ma anche e soprattutto per il beneficio che genererebbe per l’umore collettivo. Due mesi della ‘fase 2’ verrebbero significativamente ‘alleggeriti’ dalle serate davanti alla TV, ogni tre giorni, per seguire il campionato. Insomma, è chiaro che il calcio non sia fra i settori essenziali. Ma una volta che si riparte, nel bilanciamento fra interessi è giusto tenere in conto, oltre al valore economico della serie A, la passione diffusa. Rimetterla in gioco contribuirebbe moltissimo alla ripresa del benessere emotivo della comunità.
4. Una considerazione finale d’ordine generale. Due mesi di lock down hanno prodotto tanti effetti negativi. Ma, accanto ad essi, non si possono non considerare anche alcuni effetti obiettivamente positivi. Per esempio, l’accelerazione del processo di smart working, o la riduzione dei reati. Oppure quella delle morti per incidenti stradali dovuta alla drastica diminuzione del traffico, che ha generato, principalmente, un sensibile calo dell’inquinamento ambientale. Tutti abbiamo rivisto lo splendore del nostro mare, letteralmente rigenerato. Abbiamo apprezzato l’abbassamento del rumore, il valore del silenzio.
La pandemia ci ha fatto capire, inoltre, quanto la ‘meritocrazia’ – non la competenza, che è ben altra cosa – sia un falso mito, e preoccupante, perché ingiusto e discriminatorio. Va infatti rivalutata l’importanza dei ruoli sociali ed economici. Il ruolo di coloro che fanno ‘le cose’, i lavori tradizionali (infermieri, inservienti ospedalieri, addetti all’assistenza domiciliare, contadini, camionisti, fattorini, insegnanti, ecc.), s’è rivelato più essenziale di quello dei grandi operatori del mondo finanziario e bancario. Merita una maggiore considerazione, soprattutto salariale.
Si deve, dunque, riprendere gradatamente e con cautela. Senza commettere l’errore di lasciare inalterato il modello di sviluppo. L’unica ‘crescita’ tollerabile pretende un suo radicale cambiamento. Si dovrà ricominciare a crescere, sì, ma nella direzione di conservare l’ambiente, di preservarlo, non più di sfruttarlo dissennatamente. E riducendo le ingiustificate, e perciò intollerabili, disuguaglianze che caratterizzano l’attuale sistema di relazioni sociali.
È pura utopia? Forse. Ma proprio per questo viene di concludere con Luis Sepùlveda: "Vola solo chi osa farlo". E per volare bisogna saper sognare, perché "Solo sognando e restando fedeli ai sogni riusciremo a essere migliori e, se noi saremo migliori, sarà migliore il mondo".
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