Guido Clemente di San Luca a TN risponde a Cazzullo: "Negazionismo e dintorni"
Guido Clemente di San Luca, Ordinario di Diritto Amministrativo all'Università della Campania Luigi Vanvitelli, ha espresso alcune considerazioni in merito alle reazioni della stampa al match Juventus e Napoli ed ad un articolo pubblicato dal Corriere della Sera firmato da Aldo Cazzullo.
L’illustre vice-direttore del Corriere della sera, il piemontese Aldo Cazzullo [stimatissimo anche per il rinomato sagace equilibrio nell’affrontare, nei suoi numerosi libri, temi delicati (dal giovanile sogno rivoluzionario di «Lotta continua» alla vittoria del Mondiale del 2006, dal femminismo alla rivoluzione digitale, dal fascismo alla resistenza, fino al Sommo Poeta)], nella rubrica delle lettere, ha risposto a quella di un lettore partenopeo, il quale, richiamando le innumerevoli decisioni arbitrali illegittime, faceva notare che l’esito dei quarti di Champions «senza le manovre arbitrali sarebbe stato forse diverso».
Nel farlo, pur affermando, non senza una malcelata ambiguità perbenista, di non saper dire se «l’arbitraggio abbia condizionato l’esito della sfida», si è però premurato di intervenire nel dibattito tecnico-tattico, ricordando che «il Milan in tre incontri (il primo era in campionato) ha fatto sei gol e ne ha subito uno all’ultimo secondo a risultato acquisito». Omettendo però di riferire che quello di campionato contava quasi niente, e che i due dei quarti si sono disputati sul filo della incertezza, ma con netto dominio del gioco da parte degli azzurri. Poi ha aggiunto che «Domenica sera, nell’epoca pre-Var, Juve-Napoli sarebbe finita 1-0 per la Juve. Dopo che il Var ha vivisezionato il fallo di Milik su Lobotka, e Raspadori ha infilzato una Juve legittimamente frastornata, a vincere 1-0 è stato il Napoli». Così mettendosi in scia ai vari Casarin, Marchisio, Barzagli, Vaciago, Sabatini, Mauro, Trevisani, ecc., ecc. (tutti ‘negazionisti’, come si capirà fra breve).
Esibendo il tipico, insopportabile, paternalismo padano, ha dichiarato di essere «sinceramente felice che il Napoli vinca il suo terzo scudetto». Che è «meritatissimo». Che è «la squadra che gioca meglio, segna e diverte di più». E addirittura che «La gioia dei napoletani sarà la stessa gioia di noi che amiamo Napoli, il calcio e l’Italia». Commovente. Ma non versiamo troppe lacrime. Perché, anzi, nel concludere è proprio lui ad ammonirci: «basta piangere. Basta lamentarsi. Non c’è nessun complotto contro il Napoli e contro Napoli. Nessuna maledizione atavica grava sulla squadra e sulla città». E ci esorta: «Godetevi il successo, e preparate i prossimi».
Ma basta. Di tutto abbiamo bisogno, tranne che ci si faccia la morale. Trasudando ipocrisia a gogò. E soprattutto mostrando quanto sia diffuso il ‘negazionismo’. Che affligge così palesemente persino chi come lui ha mostrato di volerlo combattere. Sì, lo so bene, il termine andrebbe correttamente adoperato solo per indicare la «forma estrema di revisionismo storico» – con le parole della Treccani – che sarebbe «mossa da intenti di carattere ideologico o politico», allo scopo di negare «l’esistenza o la storicità» di «alcuni avvenimenti connessi al fascismo e al nazismo» (e so pure che quel ‘negazionismo’ là viene addirittura configurato quale reato dall’Unione Europea e dall’ONU). Tuttavia, nel linguaggio comune, v’è stato un allargamento del suo impiego semantico: si parla, ad esempio, di «negazionismo climatico». Insomma, è negazionista anche chi semplicemente nega un fatto contro ogni evidenza.
Il terreno è assai scivoloso, ne sono ben consapevole. Perché si balla sulla sottilissima linea di confine dei limiti alla libertà di manifestazione del pensiero. Ma un fatto è un fatto. E non lo si può far diventare opinione invocando subdolamente il principio cardine degli ordinamenti liberal-democratici. Per definizione, l’accertamento di un fatto obiettivo è insuscettibile di valutazione.
Denunciare le violazioni del Regolamento, dunque, non può essere trasformato in ‘piagnisteo’. È quello che provo a insegnare ai miei studenti da più di 45 anni. Oggi persino in un corso universitario appena nato sulla «Giuridicità delle regole del calcio». Altrimenti si perde di credibilità nel condurre la battaglia per la legalità. Così come la si perde laddove si racconti superficialmente un popolo e la sua complessa identità.
Quale giustificazione non vale invocare come fonte il locale foglio informatico «secondo cui questo scudetto è poco “napoletano”, nel senso che la città non ama (eufemismo) il “romano” De Laurentiis e all’inizio non amava neppure Spalletti». Proprio quella fonte è la riprova evidente di come si falsifica il racconto della realtà, manipolandola in maniera da negare i fatti trasformandoli in opinioni. Perché – vede – neppure è vero che «bisogna distinguere tra gli ultras e la città». Si salva in corner adoperando il dubitativo «forse». Non si può, né si deve, confondere, grossolanamente, gli ultras coi delinquenti. Fra loro (di qualunque squadra) ce ne sono di certo, ma non diversamente che in qualsiasi altra categoria sociale.
Anche sulle pagine napoletane del Corriere – gentile dott. Cazzullo –, il suo riferimento territoriale si ostina a qualificare il racconto fedele della realtà come stereotipato «storytelling». Perseverando nel voler far passare per fatti le sue (per carità legittime, ma fantasiose) opinioni. A cominciare dal riferimento ad un La Capria dimidiato (solo quello de «L’armonia perduta», ma non anche quello di «Ferito a morte»). Proseguendo con quello alla «programmazione», ovvero ai «principi di managerialità» che informerebbero la società Calcio Napoli (al solo sussurar dei quali i miei colleghi di economia aziendale rabbrividiscono): grazie a Dio essi restano «estranei al governo locale», che è tenuto a conoscere bene la differenza fra ‘pubblico’ e ‘privato’. Per finire con il ‘macchiettistico’ affresco del Napoli squadra, che solo adesso finalmente s’ispirerebbe al «collettivismo», ma «da sempre associata all’individualismo». Come la città. Un altro falso. L’ennesimo.
E per capire perché è così, basterebbe andare a rileggersi (abitudine che non ha chi si nutre di autoreferenzialità) l’articolo di Mirella Armiero su Aldo Masullo («Napoli è collettività»), sulle colonne dello stesso Cormez di tre anni fa (esattamente il 25 aprile del 2020). La vostra collega richiama l’intervista (nel «Diario della crisi» dell’I.I.S.F.) rilasciata un mese prima a Fiorinda Li Vigni, nel corso della quale il compianto filosofo, su Napoli, rispose testualmente: «Questo è un tema che ci portiamo avanti da millenni, domandarci quale sia la specificità di Napoli, se vi sia la specificità di Napoli. Da un punto di vista approssimativo, empirico, certamente Napoli ha la singolarità di un carattere dei suoi abitanti che è molto disponibile al rapporto con gli altri. Questo ha una sua origine storica. Chi abita nel basso, a pochi passi da un altro, è inevitabilmente abituato a una consuetudine comune, ed è questa consuetudine comune che lo soccorre nei momenti talvolta di pericolo o nei momenti di difficoltà […]. La cultura napoletana è una cultura della collettività, dello stare insieme, come si potrebbe dire. Si tratta poi di analizzare se questo stare insieme è soltanto una superficiale ricerca di rimediare a ciò che ci manca, cioè a qualcosa di più profondo del nostro vivere, o se questo stare insieme è esso stesso il profondo vivere che noi cerchiamo. È tutto da decidere e sono millenni che non lo abbiamo ancora deciso». Ecco, a meno di non volersi abbandonare al negazionismo, bisognerebbe prendere atto della irriducibile complessità di Napoli. Che include pure «genio e sregolatezza».
Per fortuna, in questa direzione il Presidente ha da ultimo dato prova di saggia resipiscenza. Guarda un po’, proprio ciò che la sua fonte poco attendibile definisce un «falso storico e una macchia, la più dolorosa, in una gestione che invece ha ridato orgoglio al concetto di napoletanità». Perché – se lo lasci dire, dott. Cazzullo, stavolta un po’ malaccorto nella scelta di chi fidarsi – a vincere, ancora dopo tanti anni, è la ‘napolitudine’. Parola che meglio esprime la complessità di questa terra. Dunque, né ‘napoletanità’ (che del popolo e della città restituisce in maniera stoltamente compiaciuta soltanto un’idea manierata e tralatizia). Né ‘napoletaneria’ (che riassume, invece, spregiativamente, soltanto quella della sua parte rozza e villana).
Concludo. Certamente pecca di imprecisione chi intona il «ritornello per cui Napoli sarebbe opulenta e felice se il Nord non l’avesse invasa». Ma non mente completamente, almeno su parte della ricostruzione storica. Mentre risulta un negazionista, appunto, chi intona l’altro ritornello, quello secondo cui «il Nord sarebbe la Baviera se non ci fosse Napoli».
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