Esclusiva

Guido Clemente di San Luca: "Mie parole su Conte mal interpretate, vi spiego..."

Guido Clemente di San Luca: "Mie parole su Conte mal interpretate, vi spiego..."
sabato 8 giugno 2024, 15:00Esclusive
di Redazione Tutto Napoli.net
Guido Clemente di San Luca, Ordinario di Diritto Amministrativo all'Università della Campania Luigi Vanvitelli, commenta così l'arrivo al Napoli di Antonio Conte.

Guido Clemente di San Luca, Ordinario di Diritto Amministrativo all'Università della Campania Luigi Vanvitelli, commenta così l'arrivo al Napoli di Antonio Conte.

"Non pensavo che quanto ho scritto sull’arrivo di Conte potesse essere così mal interpretato. Merita d’essere definitivamente smascherato una volta per tutte (sin d’ora dichiarando, peraltro, che la polemica per me si ferma qui) il covo di mistificatori seriali delle opinioni diverse, essendo doveroso far luce quando il buio fatto di stoltezza culturale conduce inesorabilmente a scrivere falsità.

1) La diversità «antropologica» napoletana è conclamata e non richiede d’esser dimostrata. Basta sapere dell’esistenza di intere biblioteche dedicate al tema, e semplicemente rinviare ad esse (così che si possa porre rimedio ad un eventuale vuoto di cultura). Del resto, ciò vale per gli studi di antropologia culturale concernenti qualsiasi popolo e territorio. La disciplina in parola, non diversamente dalla etnologia, è vocata a conseguire «una serie di conoscenze e di esperienze […] che riguardino tanto culture lontane e “altre” da quella occidentale di cui lo studioso generalmente è esponente, quanto culture vicine e proprie dell’ambito occidentale». E, sotto il profilo «epistemologico», entrambe sono tese a «conseguire un’approfondita e critica conoscenza della propria cultura e delle forze storiche che ne sono alla radice, nonché dei diversi sistemi di valori, del loro sviluppo, dei loro processi di mutamento, disgregazione e rifondazione» (le parole tra virgolette sono riprese dalla Treccani). Orbene, è opinione consolidata – sulla quale, ovviamente, ben si può anche non convenire, ma non negarne l’esistenza – che il «trinomio squadra-città-radici» restituisca un elemento di non marginale rilevanza antropologica.

2) Nel ragionare del rischio di una deriva ‘juventinizzante’, l’odio non c’entra alcunché. Indicarlo come cifra di quel ragionare è operazione di palese falsificazione dell’altrui pensiero. Se ho criticato proprio l’assenza di amore, come mi si può attribuire l’attitudine opposta? «Chiunque pensi cose diverse da te, ti odia»: il motto corrisponde perfettamente alla linea che connota il potere politico oggi dominante. Non è peregrino ipotizzare che esso possa celare preoccupanti prodromi di totalitarismo. Ho evocato io il pericolo della candidatura del generale fascista. E, guarda un po’, adoperando la tecnica tipica di quel metodo, mi si qualifica, per il «tifo azzurro», come colui dal rischio del cui avvento ho messo in guardia. Squadrismo puro.

3) Quando parlo di «juventinizzazione», non lascio spazio ad equivoci. Mi riferisco, non al tifo (che caratterizza ovviamente i sostenitori ad ogni latitudine e longitudine, di qualsiasi colore, a tinta unita o a strisce che siano), bensì alla cultura di cui quegli specifici colori (in realtà, non colori) esplicitamente e spudoratamente si fanno vanto: «Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta». È o non è il loro motto? Nel nome del quale hanno imposto una vera e propria ‘dittatura’ comportamentale e regolamentare. È vero o no che la nostra caratterizzante e peculiare specificità è consistita (da sempre, e soprattutto in questi ultimi vent’anni) nell’auspicio di coniugare la vittoria con la bellezza e la legalità? E perché mai una stagione disgraziata deve indurci a rinnegare noi stessi? Te lo dico io. Perché occorre essere più realisti del re. E va bene. Lo posso capire. Ma – spiegatemi – che gusto c’è a vincere nell’egual guisa di arroganti e prepotenti? Non è forse tipicamente nostro godere della vittoria senza omologarsi ai dettami della cultura che da sempre rifiutiamo?

4) Il no non è a Conte in sé (che ha sempre vantato la sua «professionalità», dichiarando di tifare per la squadra che allena), ma a quello di cui la sua figura costituisce simbolo (anche in strisce di diverso colore): prevaricazione e tracotanza. E questo ha a che fare anche con la ‘napolitudine’ – come la chiamo io, per distinguerla dalla ‘napoletanità’ (sovente indulgente all’oleografia), che solo un pensiero meschino può denominare in modo spregiativo ‘napoletaneria’ (a voler significare sciatteria, villaneria, sguaiataggine) –, esattamente quella che contrassegna la gentile delicatezza territoriale dei film di Troisi, oltre che le canzoni di Pino Daniele, ed i libri di La Capria, nessuno dei quali (nemmeno quest’ultimo) ha mai inteso negare. E sapete perché? Perché ‘napolitudine’ sta a significare quella particolare sensibilità che si sposa con creatività; amore ed attitudine contemplativa che si sposano con operosità (solo per ignoranza potendosi confondere l’otium con l’accidia); fantasia con intelligente rigore etico. Significa, insomma, l’esatto contrario della prepotenza e dell’arroganza. Ed è per questo che all’epoca non esitai a definire Sarri come il traditore di sé stesso. Perché, unendosi a loro dopo aver dichiarato di voler «conquistare il palazzo», finì col rinnegare quella diversità. Una diversità – fra l’altro – che restituisce un pezzo consistente della sussistenza indiscutibile, e della notevole complessità, della «questione meridionale», che per almeno un secolo e mezzo ha impegnato studiosi e intellettuali di calibro elevatissimo (da G. Fortunato, 1848-1932, a F.S. Nitti, 1868-1953, da A. Gramsci, 1891-1937, a G. Dorso, 1892-1947, e G. Salvemini, 1873-1957, fino a P. Saraceno, 1903-1991). E che, per ciò, non si può liquidare con espressioni vergognose tipo «eterno vittimismo piagnone».

5) Quello stesso «vittimismo piagnone», poi, che si brandisce per negare la fondatezza della battaglia per la legalità. Vessillo, questa, sventolato a intermittenza: quando fa comodo per sostenere livorose campagne di parte, e non invece laddove diviene oggetto di studi e ricerche applicati al calcio, i cui risultati disinvoltamente s’irridono dileggiando i «dotti convegni accademici» nei quali vengono offerti al confronto scientifico. Che pena.

6) E quanto compatimento suscita la mistificazione sulla presunta «fallace e clamorosa contraddizione». Non riuscendo a capire che indicare il 14 agosto come data del confronto fra due diverse visioni del gioco, non equivale affatto a dichiarare di preferire «il piemontese Gian Piero Gasperini». A chiare lettere: personalmente, trovo antipatici entrambi. E forse, per le opinioni politico-territoriali che esprimerà, il leccese si rivelerà anche meglio del piemontese. Ma chi se ne frega. È del tutto irrilevante. Simbolizzare significa rappresentare un’idea. Ebbene, se l’uno è indiscutibile icona della protervia che non concepisce la sconfitta; l’altro, invece, della faticosa ricerca della bellezza che vale come una vittoria. Intelligenti pauca. Altro che serpente che inghiotte la propria coda.

Conclusione: ognuno è libero di scegliere la strada che preferisce intraprendere. Ma deve farlo essendo pienamente consapevole delle caratteristiche del percorso che l’attende".