Da Zero a Dieci: l’impostore Meret, le imbarazzanti scuse di Inzaghi, Fabiàn l’odioso vicino di casa e la mattonella di Arek

21.01.2019 13:14 di Arturo Minervini Twitter:    vedi letture
Da Zero a Dieci: l’impostore Meret, le imbarazzanti scuse di Inzaghi, Fabiàn l’odioso vicino di casa e la mattonella di Arek
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© foto di Matteo Gribaudi/Image Sport

(di Arturo Minervini) - Zero problemi. Mancano quattro pilastri, ma il Napoli ‘Francamente se ne infischia’ come fosse una scena madre di ‘Via col vento’. Senza Koulibaly, Allan, Hamsik ed Insigne tutto sembra dipanarsi in maniera spontanea, su uno spartito che si nutre di consapevolezze che trascendono il singolo. Equilibrio perfetto tra idee e materia umana, alchimia percepibile al primo sguardo come quando un libro ti trasmette un senso di completezza che va a colmare ogni vuoto, appagante per tutti e cinque sensi (per le donne fate anche sei o sette). Ci sono tracce di onnipotenza nella prestazione azzurra, l’imprinting vincente di uno come Ancelotti, che la sa più lunga di tutti noi messi insieme. E questo in molti, in maniera colpevole, non hanno mai preso in considerazione.

Uno come il numero uno. Non quello che porta sulle spalle, ma quello che rappresenta e rappresenterà. Il vecchio caro portiere. Con tutti i fondamentali al posto giusto, con il fisico giusto, con la testa giusta. Alex Meret è un bluff, un mistificatore, illusionista in stile Christian Bale in ‘The Prestige’. Rende ogni intervento molto più semplice di quello che in realtà è, irradia una sensazione di sicurezza che è difficile da raccontare. Sarà pur vero che “L’uomo va al di là di ciò che può afferrare”, ma per un portiere  dovrebbe essere il primo criterio di giudizio: meno social e filosofia, più parate che portano punti a casa. 

Due ammonizioni che non c’erano dice Inzaghi parlando dell’espulsione di Acerbi, aggiungendo che in 11 la sua squadra avrebbe fatto meglio. Visioni sempre curiose quelle del tecnico laziale, voli pindarici di chi non ha il coraggio di riconoscere di essere stato asfaltato più volte di Via Marina negli ultimi quindici anni. Simone è fatto così, sempre capace di inventarsi una scusa nuova, paroliere di grande prolificità ma sempre di poca sostanza quando incontra il Napoli. Lo smemorato fratello di Pippo omette di citare il fallo killer di Lulic ed il rosso mancato per Bastos, confermando ancora una volta che ‘un bel tacer non fu mai scritto’. 

Tre punti che vanno oltre i tre punti, la Juve, l’Inter e tutte le paranoiche ricostruzioni aritmetiche legate alla classifica. Solo la gioia di vedere una squadra muoversi con l’ardore di un pugile che non si risparmia, che prova a mandare al tappeto l’avversario senza aspettare il verdetto dei giudici. È il Napoli più bello di questa nuova versione, a tratti commovente per l’intensità e la qualità delle giocate che rischiano di sommergere la Lazio come Pompei nel 79 dopo Cristo. Tre punti che valgono meno del piacere procurato ai tifosi, la gioia negli occhi dei bambini, la spensieratezza orgasmica di chi per 90’ si è lasciato cullare da quell’emozione chiamata calcio. 

Quattro legni come vessillo allo stesso tempo di sfiga e predominio. Sfortuna che racconta però dell’enorme volume di occasioni generate da una squadra per lunghi tratti in estasi calcistica, corde di una chitarra che suonano il riff di ‘Sweet Child O Mine’ come introduzione ad uno spartito che resterà fedele alla memorabile premessa. È un Napoli rock, in tutto e per tutto. Nei picchi emotivi, nelle vette di talento, in quella inguaribile dannazione che ti fa tenere la gara aperta fino alla fine e fa sospirare l’animo in attesa del triplice fischio. 

Cinque punto uno di magnitudo. Il sinistro di Milik è l’epicentro di una scossa che rischia di mandare in frantumi, come fossero coriandoli, i pali della porta laziale. Il gesto tecnico merita narrazione autonoma, un reboot indipendente rispetto al resto della fiction. L’armonia della girata, la saetta di Zeus che viene scagliata con potenza divina, il coefficiente di difficoltà che nemmeno una tuffatrice cinese alle olimpiadi. È un frullatore di cose quel mancino, un centrifugato di talento, forza, dedizione che lo bevi e ti senti più felice anche senza aver fatto gol. 

Sei mesi di Napoli ed il miglior Malcuit di sempre. Qualcosa va limato, piccole ingenuità che sono vizi comuni di chi ha grande confidenza col pallone. Il quadro complessivo, però, parla di un esterno che può diventare qualcosa di molto importante una volta incardinato nella giusta direzione. Corsa, tecnica, resistenza sono elementi che si fondono alla perfezione in questo esterno dalle tinte vivaci e dalle giocate mai banali. Kevin potrebbe dare nuovi casi a Federica Sciarelli, conduttrice di ‘Chi l’ha visto?’, andando alla ricerca di quelli che l’avevano bocciato solo per l’eclettica capigliatura. 

Sette punti sull’Inter, quattordici sulla Roma. Il Napoli prende il campionato e lo spezza in due come fosse una barretta di un Kit-Kat, lasciando però nell’altra parte solo l’amarezza di quelli che avrebbero voluto ma non possono. Nonostante la volontà della stampa, le previsioni alla Mago Otelma, i catastrofismi in stile Nostradamus parlando del mercato del Napoli in estate. Ball Don't Lie dicono quelli legati allo slang statunitense ed il campo ha sancito il suo verdetto: gli azzurri sono gli unici che possono tenere la scia della Juve. Il problema è che a stare in scia della Juve rischi di prendere troppe tossine negative dai gas di scarico inquinati. Ci siamo capiti.

Otto mesi, una gestazione anticipata. Dal 20 maggio 2018 al 20 gennaio 2019 nel cammino purificatore di Callejon verso SantiaGOL c’è il solito sudore, l’immenso sacrificio e qualche rimpianto. Proprio come il Santiago pennellato su carta da Hemingway ne ‘Il vecchio e il mare’, Josè ha atteso per tanto tempo che qualcosa abboccasse al suo amo, senza mai perdere la speranza. Senza mai cambiare la sua routine. Facendo le solite cose, consapevole che prima o poi tutto sarebbe tornato nell’ordine naturale delle cose. “Non lo disse ad alta voce perché sapeva che a dirle, le cose belle non succedono.” Eccola la cosa bella che aspettavi da tanto Callejon. E Dio solo sa quanto uno come te lo meritasse.

Nove vero, verissimo, limpido, cristallino, da far arrossire chi ha pensato per un minuto il contrario. Sembra fatto di poliuretano espanso, perché è ‘grosso assai’ ma riesce a modellarsi nello spazio come poche cose in natura. Performante in ogni parte del suo gioco, al quale aggiunte un pezzettino ad ogni esibizione come in occasione del gol numero 12 in stagione. Sei lì, con tutto lo stadio che ti guarda. La mattonella, sempre la stessa. Il pallone accarezzato ed asciugato con cura, come una donna amata che baci prima di un grande viaggio. La destinazione, ormai, è sempre la stessa quando Arek Milik piazza il pallone su quel lato del campo. Il corpo si inarca leggermente, gli occhi del portiere assistono attoniti al fato che si compie inesorabile. Per chi ci ha creduto sempre. Per chi adesso inizia a crederci. Per chi ancora non ci crede, ma in fondo al cuore sa che sta nascendo l’amore. È Venere che arriva dal mare e si accosta sulle nostre sponde. È Arek che spunta dal suo tunnel e appare ancor più bello di prima. 

Dieci all’insopportabile vicino di casa. Fabiàn è come l’Angelo raccontato da Massimo Troisi in ‘Ricomincio da tre’. Di quelli che sanno fare tutto, di quelli che a sette anni conoscono le capitali di tutto il mondo, fanno addizioni e moltiplicazioni e suonano pure il pianoforte. Fabiàn è uno che se ci sei stato amico da piccolo ti rovinava l’esistenza, ti faceva venire i complessi su un campo da calcio dove sa fare tutto e lo sa fare meglio di te. Da esterno è sublime, ma lì nel mezzo è dominatore assoluto, fagocitando palloni ed attenzioni degli spettatori. In pochi mesi lo spagnolo è diventato come i riti di cui parlava la Volpe del Piccolo Principe. Quando sai che sta per toccare palla, inizi ad essere pian piano più felice. Poi l'esplosione del cuore che rischia di generare un nuovo mondo tipo big bang. In questo nuovo mondo esiste un solo Dio. Si chiama Fabiàn, è nato il 3 aprile del ’96 a Los Palacios y Villafranca e non vorreste mai averlo avuto come vicino di casa.