Clemente di San Luca a TN: "Conte ha sempre giocato in modo speculativo, mancano idee in attacco"

Guido Clemente di San Luca, Docente di Giuridicità delle regole del calcio presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università Vanvitelli, analizza così il momento del Napoli
L’ultima giornata di campionato con la sconfitta del Napoli a Torino mi aveva suggerito pensieri che mi sono limitato ad appuntare, senza renderli pubblici, per verificare la loro fondatezza all’esito della gara di Champions ad Eindhoven. L’autentico disastro in cui questa s’è risolta sollecita la presentazione della riflessione che volevo proporre. Anche perché si tratta di capire i messaggi piuttosto criptici lanciati da Conte. «Napoli e i napoletani non devono essere presi per il culo [sic]!». In che senso? E da chi? «Dobbiamo fare un bagno di umiltà». Chi è ch’è presuntuoso? «Qualcuno butta fumo negli occhi». A chi allude? E poi – ormai pare una litania – «quest’anno sarà un’annata complessa» e «non è semplice inserire 9 calciatori e, secondo me, è sbagliato inserirne così tanti, ma noi eravamo obbligati a farlo. Non è semplice inserirli in un meccanismo che funzionava». Ma chi pensava che non fosse complesso, che fosse semplice? Su una sola cosa si può essere d’accordo. Tutti «dobbiamo tornare a fare il bene di Napoli». Bisogna intendersi sul come.
1. La povertà di argomenti del ‘risultatismo’. È dal primo momento dell’avvento dell’era Conte che scrivo che il Napoli gioca essenzialmente in modo speculativo, e non ha schemi offensivi codificati. Mi si risponde (anche a muso duro, ma su altro piano) che contano i risultati e il mister li ottiene. Quando, però, si perde, non ci sono più argomenti per difendere la tesi. Sono rimasto basito nel leggere i commenti dopo Torino. Gli abituali cantori celebranti hanno convintamente dichiarato che il Napoli ha giocato male. È vero. Ma mica peggio del solito. Anzi. Del resto, che il Napoli giochi male in via fisiologica è stato sempre riconosciuto anche dagli adulatori osannanti. Abbiamo vinto lo scudetto giocando male. Mica lo scopriamo adesso? Quando l’ho sostenuto mi si è sempre opposto: «Ma vince? Ha vinto? E che vuoi?». Perseverando nell’incensare il mister acriticamente.
Ecco, in ciò sta la povertà argomentativa del cd. ‘risultatismo’. Mai indagare su come si vince. L’argomento è uno ed uno soltanto: il risultato. Ad osservare la partita di Torino serenamente e senza pregiudizi – a parte Lucca, che nemmeno merita, però, d’esser crocifisso (a maggior ragione se il fuoriclasse lo rimprovera apertamente per gli errori, essendosi lui divorato due gol) – nessuno ha giocato sotto la sufficienza. Ipercriticati e valutati con voti molto bassi Olivera, Gilmour e Di Lorenzo. Quasi nessuno che si sia mostrato disposto a ragionare sul fatto che sin qui s’è giocato registrando, pressappoco sempre, gli stessi numeri negli indicatori essenziali: il possesso palla, i tiri in porta, gli XG, la capacità di recuperare palla in zone alte del campo, ecc. Tutti a glorificare sempre e comunque il gioco utilitaristico di Conte. «Vuoi vedere il bel gioco, lo spettacolo? Vai al circo! Io voglio vincere!» (così peraltro rinnegando la storia e l’antropologia del tifo azzurro).
Siccome pure io voglio vincere, di fronte all’argomento, ricolmo di stoltezza ma forte della effettività, devo abbozzare. Ma quando si perde? Ecco che saltano fuori gli argomenti giustificativi che, se adoperati all’inverso, vengono rifiutati senza discussione. A Torino, se non si fossero acciaccati McFratm e Hojlund; se KDB avesse ‘ingarrato’ il destro a giro al 23°, sullo 0-0, o il sinistro su prezioso invito di Lang al 70°; se il sinistro a giro di Politano fosse stato appena 5 cm più interno, oppure se solo Lang avesse lasciato la ribattuta in rete a Elmas. Ad Eindhoven, se Buongiorno avesse impattato con la fronte invece che con la nuca; se il rinvio di Beukema non fosse finito sul corpo di un avversario; se Man non avesse sbagliato il tocco finendo per fare involontariamente tunnel allo stesso Beukema; se Lucca non fosse stato espulso per la farneticazione di un arbitro permaloso. Se, se, se… Fatemi capire, quando fa comodo, vale questo genere di argomenti? Ripeto da anni che per vincere ci vogliono tre cose: a) una squadra forte che gioca bene, b) una competizione non falsata dalla illegittima disapplicazione delle regole e c) essere assistiti dal tempo giusto delle cose.
Ebbene, la squadra è forte (ma non gioca bene), e non si registrano ai nostri danni decisioni illegittime eclatanti. Tuttavia, il Kairos (diversamente dal tempo come Kronos, che ahimè scorre inesorabile e implacabilmente uguale) non ci sorride come l’anno scorso. Il Napoli, certo, ebbe il merito di star lì fino in fondo, ma a regalarci il titolo furono decisive le reti di Soulè, Orsolini e Pedro. Oggi sembra non andare così. Di cosa possiamo discutere allora?
Secondo Conte, staremmo «facendo un calcio aggressivo e propositivo». Forse sì, ci sta provando, ed è vero che, per cercare di «dominare la partita», sia «inevitabile che le altre giochino di rimessa e ripartenza», e che così «si può lasciare qualche spazio»: ma chi deve porvi rimedio? Certo, «dobbiamo essere forti in pressione sui duelli e fare un ulteriore step in avanti»: ma quando? Sono più di tre mesi che allena la nuova rosa. Ancora, dobbiamo sicuramente dismettere «le scarpe da ballerina», ma è veramente opinabile che col Toro fossimo «bellini in costruzione» e (soltanto) privi di «quella energia e cattiveria per fare male». E infine, è proprio lui a riconoscere che si deve «un po’ scindere la prestazione dal risultato», affermando che era stata positiva «anche col Milan». È un dato che «Rispetto all’anno scorso abbiamo concesso più gol però ne abbiamo fatti di più» ed è indubbio che ci vuole «concretezza»; ma è ancora tutto da dimostrare che «rispetto alla stagione scorsa la mole di gioco è migliorata in maniera importante».
Aspettiamo speranzosi di imboccare «la strada europea», di giocare «per cercare di fare un gol in più». Certamente daremo ancora «fiducia e pazienza». Così come cercheremo di «non esaltare e non ammazzare». Attendiamo con ansia di poter scaricare sull’Inter tutta la voglia dell’intera città. Ma senza mettere la testa sotto la sabbia come lo struzzo (anche se la metafora deriva da una credenza ormai smentita). Gilmour non varrà Lobotka, ma è un regista, non un mediano; De Bruyne è un fuoriclasse, ma la sua collocazione tattica è ancora incomprensibile; vanno dosate le energie e, alternando con saggezza i due sistemi (non è un dogma schierare i quattro centrocampisti, e non è vero che dà sempre maggior equilibrio), bisogna sfruttare di più Neres, Lang e Elmas; si potrebbe proficuamente adoperare Spinazzola come alternativa a Di Lorenzo; recuperare il miglior Olivera proponendolo in alternanza con Gutierrez; aspettando Rrahmani (senza di lui nessun clean sheet), impiegare Marianucci quale alternativa a Beukema; avvalersi dei cambi anche nell’intervallo; capire perché, pur esibendo una squadra che nei contrasti mai arriva prima, accusiamo tanti affaticamenti muscolari; se crea disagio emotivo, ed in chi, giocare il campionato in vista della partita europea; e infine spiegare (senza menar fumo negli occhi) quali tempi prevede per l’inserimento dei nuovi, visto che li ha scelti (quasi tutti) lui.
Mi piacerebbe tanto che sabato aggredissimo l’Inter – che resta la più forte, Chivu avendo avuto il merito, lui sì, di ritoccare qualcosa, senza stravolgere i principali meccanismi di gioco e rimotivando i delusi –, ritrovando d’incanto concentrazione, grinta, quel sentirsi, ciascun giocatore e tutti insieme, rappresentanti del meraviglioso popolo azzurro.
2. Amore e professionismo. Quando il Napoli perde mai può essere una buona domenica. Diciamolo chiaramente. A scanso di equivoci. A nessuno piace perdere. Talvolta, però, la sconfitta ha un sapore meno sgradevole. Quando perdi con un avversario particolarmente degno di rispetto, per la storia che rappresenta e per i valori che incarna. È il caso del Toro. Quella maglia granata evoca virtù e qualità spiegate nell’affrontare gli avversari: spessore etico, forza morale, fermezza, risolutezza, tenacia, ardimento, audacia, coraggio, fierezza.
E poi c’era il Cholito. Che tutto questo incarna a prescindere dalla maglia che indossa. Figuriamoci adesso che veste granata. Al momento del suo gol ho ricevuto 4-5 whatsapp che recitavano più o meno così: «è la prima volta che sono contento di aver preso gol». Il suo racconto pre-gara del viaggio in lacrime da Napoli a Torino è entrato nel cuore di tutti, almeno di tutti quelli che non si rassegnano a guardare solo al risultato. Il suo palese dispiacere d’aver segnato ai ‘suoi’ azzurri, ci riconcilia con l’epica del calcio più autentica. Sì, è parso che quasi volesse scusarsi. Un atteggiamento criticabile soltanto dai retori del professionismo. È questione non solo e non tanto di «rispettare gli antichi colori». Piuttosto di autenticità dei sentimenti. Non c’era alcuna offesa verso i tifosi del Torino. I quali hanno ben capito lo stato emotivo. Solo coloro che hanno a cuore e negli occhi esclusivamente il simbolo del dollaro possono evocare l’etica del professionista.
Uscire sconfitti per un suo gol, accompagnato da quel tenero sguardo perduto e confuso nell’incrociare gli occhi dei tifosi sia azzurri sia granata, e dalle mani conserte a chieder dolcemente «pirdonanza» (per dirla alla Camilleri), ha reso (almeno) quella sconfitta meno amara.
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