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Clemente di San Luca: "Che tossico dopo Lisbona e Udine! Ma il Napoli è anche altro"

Clemente di San Luca: "Che tossico dopo Lisbona e Udine! Ma il Napoli è anche altro"
Oggi alle 15:20Le Interviste
di Pierpaolo Matrone

Guido Clemente di San Luca, Docente di Giuridicità delle regole del calcio presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università Vanvitelli, si è soffermato sul momento del Napoli: "Che tossico! Dopo Lisbona, Udine. Ci risiamo. Per fortuna Napoli e il Napoli sono anche altro. Dopo la partita di domenica avevo programmato di andare a vedere “Sine Diez, Musica per piedi innamorati”, uno spettacolo di Stefano Valanzuolo (testo e voce narrante, accompagnata da un trio di bravissimi giovani musicisti – fisarmonica, contrabbasso e tromba), nella Chiesa di San Francesco delle Monache, in Via Santa Chiara, sede della “Fondazione Il Canto Di Virgilio”. Un racconto «scandito dalla musica» dei sette anni di Maradona e Napoli, vissuti con «emozione, amore, speranza, rabbia e gioia».

E così sono riuscito a consolarmi. Meglio, a disintossicarmi dalla batosta in terra friulana. La commozione mi ha riconciliato con me stesso, con la mia identità di tifoso azzurro, con la poesia, per «un ricordo affettuoso, velato dal pudore, impreziosito dalla malinconia». Stando un’ora e poco più in quella chiesa sconsacrata, divenuta Domus Ars, nel mezzo di un centro storico che palpita di vitalità nelle forme culturali più varie, si capisce perché Napoli è veramente unica. Chiudendo gli occhi ho sentito tutta la potente specialità della nostra terra e m’è venuta in mente la sua incredibile molteplicità civile. Ho pensato, fra gli altri, a don Antonio Loffredo, alla rinascita della Sanità. Alla Fondazione Napoli C’entro, voluta dal Cardinale, che sta rivitalizzando le chiese del centro storico puntando sullo spirito del dono. Insomma, per fortuna Napoli e il Napoli sono tanto altro.

Dopo la vittoria sulla Juve mi sentivo contento e soddisfatto, perché mi ero persuaso che, dalla partita con l’Atalanta a seguire, potevamo dirci ormai molto migliorati. Non tanto per aver cambiato il credo calcistico (il mister resta sé stesso), bensì perché sembrava che Conte avesse finalmente messo – meglio: fosse stato ‘costretto’ a mettere – in campo Neres e Lang. Ribadisco: niente a che vedere con una nuova identità (sarebbe irrealistico immaginare che il «condottiero» abbia cambiato ‘filosofia’). Tuttavia, visto il netto miglioramento del gioco – sebbene fosse figlio di scelte indotte dal numero abnorme di infortuni (dei quali, peraltro, proprio non si può ritenere unico responsabile il destino crudele) –, era legittimo credere che si fosse cambiato marcia.

Insomma, non pensavo che Conte avesse mutato le sue qualità (resta soprattutto il motivatore migliore, forse in assoluto). Tant’è che mi chiedevo se avremmo mai visto la propensione offensiva delle ultime quattro prima della ricaduta, ove non fosse stato costretto dall’emergenza. Eppure, s’è avuta la sensazione che avessimo di nuovo una squadra unita e vogliosa. Ho supposto che, con ogni probabilità, la novella forza dimostrata derivasse da un ‘patto’ stretto fra allenatore e giocatori dopo Bologna. Patto della cui esistenza possiamo, appunto, solo supporre, basandoci però su un fatto non discutibile: la rilevante modificazione tattica, in cui la squadra è parsa obiettivamente identificarsi in maniera convinta (pur se solo dovendo fare di necessità virtù).

Detto altrimenti, non si poteva non riconoscere che il tecnico disponeva ormai di una squadra votata all’attacco. Come se gli eventi contingenti avessero avvicinato il gioco alla natura della città. Come se avessero dato la stura ad una rivoluzione tattica in grado di dargli un respiro più simile a quello della nostra aria. Perché, se – come nessuno nega – il nostro è un tifo identitario, ebbene l’identità azzurra è data dal matrimonio della ricerca della vittoria con la bellezza. Ci eravamo andati convincendo, dunque, che stessimo riprendendo il nostro cammino. E poi? Cos’è successo?

2. La sconfitta a Udine è stata meritata. Abbiamo di nuovo giocato male. Come tre giorni prima col Benfica. Ma – mi chiedo – perché riproporre pedissequamente la stessa formazione? Può mai essere che il mister non abbia imparato la lezione? Che quel patto stretto coi giocatori al ritorno dal sabbatico a Torino – che pareva aver sortito la felice inversione di rotta (per restare nella metafora marinara da lui stesso adoperata) – si sia sciolto così presto? Diversi ragazzi sono apparsi stanchi, privi di mordente. Quando si giocano 4-5 partite di seguito ogni tre giorni, è normale che le energie psico-fisiche scemino. Perché persevera nel non farli ruotare? Dovendo fronteggiare quattro competizioni, è o no una strategia poco felice tenere in campo sempre gli stessi?

Se potessi, vorrei domandargli in particolare: ma a Udine sarebbero state scelte tanto stravaganti – che so? – Politano al posto di Neres (da conservare fresco per il secondo tempo), o Vergara per far rifiatare uno fra Elmas e McFratm, oppure Marianucci (ben motivato a prendere Zaniolo uomo su uomo ferocemente) in luogo di Buongiorno, e persino il fedelissimo Pasqualino Mazzocchi per Di Lorenzo? Va bene la criticità infortuni, ma se da quel franco e leale confronto veramente hai capito (e ammesso) che forse c’era stato qualche errore nella preparazione e nella gestione della rosa, beh allora era naturale aspettarsi una pur minima rotazione. Comunque, nulla è perduto. Ed è certamente confortante che adesso, anziché vituperare i giocatori, li difenda.

Da diverse parti, ho sentito formulare un auspicio per me aberrante. Perdiamo stasera col Milan, così ci possiamo riposare e rimettere in sesto. Non scherziamo! Noi tifosi azzurri malati speriamo ardentemente che la difesa di Conte dei ragazzi sia stata prodromica per generare effetti benefici a Riad. E poi dobbiamo vendicarci della sconfitta al Meazza. L’amma schiattà ’ncuorp! Altro che! Anche perché finire con ‘zero tituli’ – come l’Inter l’anno scorso – proprio non ci va.

3. Ultima notazione, come al solito, sulla persistente illegittimità nell’applicazione delle regole. A Udine abbiamo giocato male, l’ho appena dichiarato. Ma, per favore, proprio non si può sentire che siamo stati «salvati due volte dal VAR». Salvati? Ma come parlano? Quelli alla legalità e alla giustizia sono diritti sacrosanti, non benefici concessi graziosamente da un sovrano generoso. Tuttalpiù, ad essere stato salvato dal VAR è stato il signor Sozza («nomen omen» – verrebbe di dire – tanto la sua direzione è stata indecente), che, per «lasciar giocare», ha arbitrato favorendo una spudorata violazione delle regole poste a presidio del gioco.

Per non parlare dell’ormai definitivamente inascoltabile oracolo di DAZN. Che, imperterrito, continua a far passare sesquipedali corbellerie come prescrizioni regolamentari: la «valutazione di campo» che inibirebbe l’intervento del VAR; oppure la «leggerezza della spinta» (addirittura inventando di sana pianta una differenza tra spinta ad una o a due mani, punibile essendo solo la seconda) che sarebbe insufficiente per decretare un rigore.
A Parma, in entrambe le espulsioni dei giocatori della Lazio, v’è stata una gravissima omissione del VAR. Sulla prima, Zaccagni interviene con «imprudenza» e non con «vigoria sproporzionata». Classica fattispecie contemplata dal Protocollo quale doveroso intervento del VAR. Sulla seconda, c’è prima una evidente gomitata del giocatore parmense e poi un intervento, duro sì, ma non violento, di Basic (per reagire alla gomitata subìta e illegittimamente non sanzionata): anche qui la revisione sarebbe stata doverosa. E invece, nell’uno e nell’altro caso, essendo erroneo l’accertamento del fatto da parte dell’arbitro, il VAR ha mancato di adempiere il suo dovere giuridico. È il direttore di gara, non il VAR, a dover stabilire, dopo la review, se c’è stato o no un «chiaro ed evidente errore».

Nella partita di Bologna, infine, alla Juventus non è stato concesso un rigore clamoroso. La spinta di Lucumì a David è netta e inopinabile (non diversamente da quella di Bastoni contro il Liverpool). Invece di star lì a discettare sull’intensità della spinta, perché gli ineffabili commentatori televisivi non si domandano la cosa più semplice: spingere l’avversario, anche solo per sbilanciarlo, è o no una «negligenza»? Devono smetterla di cianciare a vanvera che il calcio è sport di contatto. Perché, stando al Regolamento, i contatti non devono essere negligenti (né imprudenti, né effettuati con vigoria sproporzionata). E un calciatore che spinge l’avversario con le mani pecca di negligenza a prescindere, perché manca «di attenzione o considerazione», o almeno «agisce senza precauzione»".